lunedì 24 dicembre 2012

Del perché il Karaoke ha ucciso il Pianobar

C'era una volta il Pianobar o Piano Bar che dir si voglia. Un luogo charmant, un luogo dove sedersi in dolce compagnia oppure malinconicamente soli e sorseggiare il proprio drink preferito. Un luogo non luogo, che, proprio per questa sua autonegazione generava magia. 

Tu eri lì ma eri anche altrove. Da solo o in compagnia. Venivi trasportato in un'altra dimensione dove tutto era possibile grazie all'alcol e alle seducenti note di un pianoforte (suonato con grazia e tecnica) Il Pianobar è un'invenzione americana, o almeno credo. 

Qualche cosa che si vedeva nei film, qualche cosa che ti permetteva di fare parte di un film, Il tuo! Dove eri regista, attore e produttore (i cocktails alla bionda dovrà pur pagarli qualciuno) ma almeno la bionda era nostrana come una birra Peroni e non di qualche remota regione del °à#¶]*^-stan. Negli anni ottanta, la cortina di ferro almeno faceva si che se una bionda si sedeva allo sgabello imbottito affianco al tuo, quest'ultima parlasse almeno la tua stessa lingua (gli accenti regionali erano offerti dalal casa). 

Poi arrivò il KARAOKE.

Già che ci sono tutte quelle K nel nome, mi girano i vinili. Ke la trasformazione della nostra preziosa lingua in KualKosa di duro e innaturale come una Konsonante venuta da Kissadove sia Kominciata lì?
Non lo so ma so per certo che a un certo punto tutti si sono sentiti in dovere di fare gli artisiti, senza ne arte ne parte. Tuttti a cantare a squarciagola (e a straccia-cazzi) motivetti che, se un tempo erano orecchiabili, ora facevano rivoltare l'autore nella tomba o gi facevano venire voglia di stordirsi a suon di vino al metanolo. 

BASTA!

Ci sono innovazioni che fanno piazza pulita di cose vecchie, le automobili sono meno romantiche ma sicuramente più pratiche delle carrozze a cavalli. I fogli elettronici risparmiano tempo e fatica a tutti i contabili del mondo ma...

Certo la mediocrità riempie i locali, ma se qualcuno avesse le palle oggi cercherebbe di proporre la qualità di bravi cantanti-pianisti-intrattenitori VIETANDO tassativamente a tutti se, non in coro, di cantare le canzoni officiate dal "sacerdote" ufficiale. Per quanto io sia poco religioso e ancor meno cattolico non ho mai visto nessuno salire sull'altare a dir messa al posto del prete.

Stò paragonando un pianista di piano bar ad un servo di Dio? Si, ma è una metafora, una parabola e ora la parabola ha quasi toccato il fondo.

BASTA! Rivoglio un vero Piano Bar. 
Cazzo!

domenica 23 dicembre 2012

Del perché Brera non è più Brera (e Milano non è più Milano)

Questo è un blog nostalgico e la cosa non mi piace.
La nostalgia non porta altro che lacrime e le lacrime sono fredde e umidicce anche quando povengono da una passione bruciante. Perché Brera che per un memorabile periodo è stata il fulcro della vita notturna milanese ora è ridotta a un quartierino grazioso infarcito di snob e gente pallosa? 
C'era una volta la Milano da bere (e da mangiare). Una Milano carnale, una Milano da scopare. Una milano fatta di gente che lavorava ma che alla sera, dio bono, si andava a divetire. E viveva meglio.
Sapeva vivere. Una Milano industriale e industriosa fatta di operai artigiani e commercianti. Fatta di fabbriche fumanti come l'Alfa Romeo e il TIBB (Tecnomasio Italiano Brown Boveri, ah ecco cosa significava...) o come l'Innocenti, la Motta e l'Alemagna. E cosa faceva un operaio quando finiva il turno, stanco, magari alle dieci di sera? Andava in Brera, e come lui anche il dirigente o il funzionario di banca. Questa Milano non c'è più e non ci sarà più. E' morta! (R.I.P.). 

Ma chi se ne frega! 

Abbiamo alle spalle più di centomila (100'000) anni di evoluzione e non siamo cambiati poi tanto, quindi ho ancora ragione di sperare. Sperare che la gente di oggi la smetta di divertirsi solo al fotutto Happy hour, ingozzandosi di tartine e patè d'olive di infima qualità e che magari torni a emozionarsi vivendo con altri suoi simili ascoltando buona muscia dal vivo, socializzando alcolicamente con altri simili dimenticando per un attimo le menate di tutti i giorni. Perchè diciamocelo, le "crisi" sono solo delle scuse. Sono solo l'orlo troppo corto di gente senza nervi saldi. Scuse patetiche come quelle che si usano per mollare il proprio marito o la propria moglie solo perchè non siamo stati in grado di renderci conto in ogni istante della vita che stavamo vivendo lasiando poi  che il giardino appassisse dando  la colpa al surriscaldamento globale. Palle! Tiratele fuori invece di raccontarle. Vivete, cazzo! E Milano, insieme a Brera tornerà a vivere. Voi siete l'acqua, loro il giardino, quello dell'eden. Un qualcosa di troppo prezioso per farlo sfiorire.

martedì 19 giugno 2012

Campioni di pelota basca si scatenano nello sferisterio di via Palermo

Largo la Foppa anni '50, '60

Curiosa immagine notturna di Largo la Foppa. Irriconoscibili i due lati di Corso Garibaldi dove sulla sinistra abbiamo un bel palazzo che è stato sostituito da un'orrendo solido modernista e a destra ciò che c'era prima che venisse creata la piazzzetta e l'attuale palazzo con i portici. La metro sarebbe arrivata negli anni settanta. Fari di automobili (poche) si rincorrono nella notte milanese che si appresta al boom economico.

Foto da: www.skyscrapercity.com
Utente: luchimi

sabato 16 giugno 2012

Partitore della Martesana

Una foto piuttosto rara: Il partitore delle acque al ponte delle gabelle.
L'acqua proveniente dal canale della Martesana, che scorreva in via Melchiorre Gioia arrivata in questo punto scolmava in parte dando origine al cavo Redefossi. In fondo potete vedere l'ex stazione dei treni per Monza che attualmente è la sede dell'hotel Moschino e sulla sinistra un angolo delle cucine economiche. Ora la diga che si vede nella foto è interrata ma il Redefossi scorre ancora e arriva fino a San Donato.

mercoledì 7 marzo 2012

Non sparate sul pianista

Non so chi abbia inventato il detto “il mattino ha l’oro in bocca”. Personalmente diffido di chi ha la tendenza a mettersi metalli pregiati sotto i denti. Solitamente sono filibustieri o truffatori, che lo fanno per comprovarne l’autenticità.

Erano le tre di notte, che poi sono anche le tre del mattino ed io, ero in piedi, si fa per dire, solo in virtù del fatto che me ne sarei andato a letto di li a poco.Alex, il pianista stava staccando.In tutti i sensi. Staccava cavi, staccava sequencer MIDI, Avrebbe gradito che gli staccassero anche l’assegno del suo compenso ma non era giorno di paga. Stava riponendo tutto il corredo di tecnoputtanate che si portava dietro per il suo show, compresa la lampada strobo de poche con cui aggiungeva un tocco psichedelico alle serate settantaottanta del Pelouche. Pianista e showman. Insomma, Un vero pianoman.

Nel Far West, la vera vitaccia, era quella dei pianisti di saloon, costretti da pianoforti senza coda, a dare le spalle a tutto il pubblico. Riuscivano a mantenere un sorriso alla groucho marx, con tanto di occhi sbarrati e sigaro, anche quando gli animi, scaldati da ampie dosi di whiskey e donne di malaffare, cominciavano a manifestare il loro disagio a colpi di pistola.Vi siete mai chiesti se sono più veloci le pallottole o le dita di un pianista? Quelli che l’hanno scoperto non sono più qui a raccontarlo.

Ai tempi, o eri un pistolero e ti occupavi di vacche, (In tutti i sensi) o eri un pistola qualunque e lavoravi in un saloon. Dietro il bancone, dietro il pianoforte o nelle camere al piano di sopra, ma dovevi depilarti le gambe. Al bancone, ci si può sempre abbassare a cercare qualcosa fischiettando, mentre in aria fischiano i proiettili. In una camera, hai a che fare con un diverso genere di pistole che, male che vada, ti sparano in un occhio. Ma incollato a un piano, dove vai? Preghi e continui a cantare “Oh my darling Clementine”. Non puoi neanche incrociare le dita, altrimenti i diesis e i bemolle fanno a farsi benedire. Un mestiere da veri duri.

Ai giorni nostri sarebbe come cantare bendati “oh mia bela madunina” nel quartiere scampia di Napoli durante un regolamento di conti della camorra. In un pianobar come il Pelouche, moderno saloon alla moda, il ruolo del pianista non aveva cessato di avere la sua dose di rischi. Alex era metro e novanta di corpulenta musicalità, un monumento alla nobile arte dell’intrattenimento. Un gigante buono, che quando non suonava per lavoro, giocava a basket per diletto.

La sua caratteristica? far sentire speciale il suo pubblico. Anche la più perfetta sconosciuta che metteva per la prima volta il suo tacco a spillo in quel buco infernale, diventava una protagonista. Merito delle sue battute, dei suoi flirt da palcoscenico, del suo charme da pirata gentiluomo. Quando suonava, però, era un uomo con le spalle al muro.

Seduto in una nicchia che, più che un palco sembrava un altare per sacrifici umani. Non il suo, si spera, perché se avesse avuto un malore, i soccorsi, avrebbero fatto prima a demolire la parete che a estrarlo dal suo posto di combattimento. Ma almeno da li fronteggiava tutto e tutti a testa alta e se avessero voluto sparargli avrebbero dovuto guardarlo negli occhi.

Per fortuna nei pianobar di Brera, le armi sono caricate a salve, nel senso di “salve, come sta? Posso offrirle un cubalibre con l’Avana 7?” e al massimo si sparano balle, grosse finché volete, ma che poi rotolano via a fine serata.

Tutta l’attrezzatura aveva trovato posto nelle rispettive custodie e io, ultimo ma non ultimo, mi stavo infilando la giacca per uscire.

“Peppo, se mi aspetti, esco anche io”
“ma certo, perchè no?”
“E andiamoooo”.

Foto di: Carla Sedini